Lo chiamavano Trinità
“Trinità”: dal punto di vista terminologico, è un neologismo inventato dalla Chiesa per dare un nome al nostro Dio e, pur proclamando la fede in un solo Dio, distinguerlo in tre Persone uguali e distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Nel vocabolario mancava una parola che significasse contemporaneamente uno e tre; e voilà, ecco a voi la TRINITA’!
Venti secoli di riflessione teologica hanno sempre più arricchito, ma anche “complessificato” la conoscenza del Dio dei cristiani; del resto, la fede non è una cosa semplice, anche se Dio è l’Essere più semplice che c’è! tra i cosiddetti predicati di Dio c’è anche l’UNO: più semplice di così!
Com’è possibile, chiediamoci, dichiarare che 3 è uguale a 1?
Quest’oggi mi permetto di obbiettare sulla scelta del brano di Vangelo: al capitolo 10 di Giovanni, ma anche e soprattutto al capitolo 17, il Signore dichiara che lui e il Padre sono uno; e prega il Padre affinché anche coloro che (il Padre) gli ha affidato siano una cosa sola, come lui, Gesù, e il Padre sono una cosa sola. Secondo il mio modesto parere, questi due brani di Vangelo sono decisamente più appropriati per parlare della Trinità.
E lo Spirito Santo? dov’è finito lo Spirito Santo?
Lo Spirito Santo è l’Amore che lega il Padre al Figlio e viceversa! Quando si parla del Padre e del Figlio si parla implicitamente anche dello Spirito Santo!
Magari, parlando dei cristiani, si potesse dire lo stesso!
Magari, si potesse dare per scontato l’amore cristiano anche tra noi cristiani!
L’Amore che lega il Padre al Figlio è talmente vero, talmente sostanziale ed essenziale, da assumere i connotati di una Persona vera e propria, appunto, la terza Persona della Trinità…che, poi, è la prima in ordine di apparizione, nella Bibbia, l’ho già detto domenica scorsa, in occasione della solennità della Pentecoste.
C’è un aspetto di importanza capitale nella nostra riflessione sulla Trinità; e lo cogliamo osservando l’icona tradizionale della Trinità: il Padre sorregge con le mani la croce del Figlio, mentre lo Spirito Santo vola sospeso tra lo sguardo del Padre e il capo reclinato del Figlio.
La croce è l’ora del Figlio, certo, il momento della morte/innalzamento/glorificazione di Gesù.
Tuttavia, in quel momento, sono presenti tutte e tre le persone (della Trinità), a condividere l’estremo gesto di riconciliazione con il quale il Verbo incarnato rivela l’amore infinito di Dio.
Coloro che hanno superato da un po’ gli –anta e si sono preparati alla prima comunione sul catechismo di Pio X, hanno studiato che Gesù patì come uomo, non come Dio.
Questa è ancora la spiegazione teologica del rapporto tra il nostro Dio infinito e immortale e la passione in croce di Gesù…
Ora, se è vero, com’è vero, che, in quanto Dio, il Signore non poteva né patire, né morire, gli autori della famosa icona occidentale della Trinità, dovrebbero spiegarci perché, al momento della morte del Figlio, convocano anche le altre due Persone… semplici testimoni?
Non credo!
Queste tre Persone, sono o non sono una cosa sola?
Se sì, allora non è errato pensare che tutto Dio nasce, tutto Dio opera prodigi, tutto Dio insegna e guarisce, tutto Dio patisce, tutto Dio muore, tutto Dio risorge. Certamente, nella persona di Cristo. Ma, come più volte sottolinea il Vangelo, il mistero dell’Incarnazione non separa il Figlio dal Padre e dallo Spirito Santo; in altre parole, l’unità trinitaria resta integra anche nel tempo che va dall’annunciazione dell’angelo a Maria santissima, all’Ascensione del Cristo al cielo.
È talmente armonica e integrale l’unità della sostanza delle tre Persone, che, dopo l’ascensione del Cristo risorto, anche la Trinità ne resta sensibilmente mutata: se prima dell’incarnazione la seconda persona della Trinità possedeva solo ed esclusivamente natura divina, dopo l’incarnazione, il Cristo conserva anche la natura umana (oltre a quella divina).
Come vedete, qualsiasi cosa possiamo affermare sulla Trinità, l’identità di Dio resta sempre un mistero, non solo nel senso di sacramento efficace della Grazia, ma anche nel senso di enigma, realtà troppo alta per comprenderla e definirla. S.Agostino dichiara: “Se lo capisci non è Dio!” È doveroso riconoscere che queste precisazioni non aggiungono granché al Vangelo.
Con buona pace dei filosofi cristiani, il Vangelo è l’unico testimone autorevole e autentico, che ci possa illuminare e rivelare la Verità di Gesù di Nazareth e la Verità di Dio; non si tratta di due verità diverse: la prima è contenuta nella seconda, come la parte nel tutto.
Che ne dite, la finiamo qui? Mi rendo conto che più ci inoltriamo nel discorso su Dio, più il discorso perde apparentemente il contatto con la realtà.
Tutta colpa, pardon, tutto merito della (filosofia) Scolastica, la quale rappresenta un crocevia, per la riflessione sul mistero di Dio, allorché, abbandonato per così dire l’elemento esperienziale della fede, cioè il momento liturgico, i teologi imboccarono la strada della speculazione filosofico-metafisica, assumendo concetti e categorie astratte, sillogismi, argomentazioni logiche, nella convinzione che tale cambio di rotta –dall’esperienza (sacramentale) di Dio, alla speculazione su Dio – potesse giovare alla comprensione delle verità rivelate.
Le intenzioni erano buone, più che buone… la riuscita, non lo so…
San Paolo ci ricorda che lo Spirito Santo ci insegna qualcosa di fondamentale sul nostro Dio: ci insegna a chiamarlo Padre. Così lo chiamò Gesù, nell’orto degli ulivi; e così lo chiamiamo noi, nella preghiera che Lui ci ha insegnato. La consapevolezza della paternità di Dio deve bastarci a vivere la fede e a sentirci fratelli nella fede.
E così sia!
fr. Massimo Rossi
Lo Spirito che ‘riporta al cuore’ ogni parola di Gesù
Lo Spirito Santo che il Padre manderà vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Lo Spirito, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi dell’origine, il fuoco del roveto, l’amore in ogni amore, respiro santo del Padre e del Figlio, lo Spirito che è Signore e dà la vita, come proclamiamo nel Credo, è mandato per compiere due grandi opere: insegnare ogni cosa e farci ricordare tutto quello che Gesù ha detto.
Avrei ancora molte cose da dirvi, confessa Gesù ai suoi. Eppure se ne va, lasciando il lavoro incompiuto. Penso all’umiltà di Gesù, che non ha la pretesa di aver insegnato tutto, di avere l’ultima parola, ma apre, davanti ai discepoli e a noi, spazi di ricerca e di scoperta, con un atto di totale fiducia in uomini e donne che finora non hanno capito molto, ma che sono disposti a camminare, sotto il vento dello Spirito che traccia la rotta e spinge nelle vele. Queste parole di Gesù mi regalano la gioia profetica e vivificante di appartenere ad una Chiesa che è un sistema aperto e non un sistema bloccato e chiuso, dove tutto è già stabilito e definito.
Lo Spirito ama insegnare, accompagnare oltre, verso paesaggi inesplorati, scoprire vertici di pensiero e conoscenze nuove. Vento che soffia avanti.
Seconda opera dello Spirito: vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Ma non come un semplice fatto mnemonico o mentale, un aiuto a non dimenticare, bensì come un vero “ricordare“, cioè un “riportare al cuore“, rimettere in cuore, nel luogo dove di decide e si sceglie, dove si ama e si gioisce. Ricordare vuol dire rendere di nuovo accesi gesti e parole di Gesù, di quando passava e guariva la vita, di quando diceva parole di cui non si vedeva il fondo.
Perché lo Spirito soffia adesso; soffia nelle vite, nelle attese, nei dolori e nella bellezza delle persone. Questo Spirito raggiunge tutti. Non investe soltanto i profeti di un tempo, o le gerarchie della Chiesa, o i grandi teologi. Convoca noi tutti, cercatori di tesori, cercatrici di perle, che ci sentiamo toccati al cuore da Cristo e non finiamo di inseguirne le tracce; ogni cristiano ha tutto lo Spirito, ha tanto Spirito Santo quanto i suoi pastori.
Ognuno ha tutto lo Spirito che gli serve per collaborare ad una terza opera fondamentale per capire ed essere Pentecoste: incarnare ancora il Verbo, fare di ciascuno il grembo, la casa, la tenda, una madre del Verbo di Dio. In quel tempo, lo Spirito è sceso su Maria di Nazareth, in questo tempo scende in me e in te, perché incarniamo il Vangelo, gli diamo passione e spessore, peso e importanza; lo rendiamo presente e vivo in queste strade, in queste piazze, salviamo un piccolo pezzo di Dio in noi e non lo lasciamo andare via dal nostro territorio.
P. Ermes Ronchi
Mi presento
Carissimi,
giustamente qualcuno ha richiesto qualche notizia in più sul nuovo parroco di Sant’Anna. Ecco, perciò, qualche riga di presentazione sul mio percorso di vita, già abbastanza lungo.
Sono nato a Bedizzole (Brescia) il 10 settembre 1949. Dopo gli studi normali emetto la mia prima professione religiosa nella Congregazione di S. Giovanni Battista Piamarta il 27 settembre 1966. Nel 1969 conseguo la maturità superiore e la Congregazione mi dà la possibilità, dopo un biennio di filosofia, di iscrivermi presso l’Università Gregoriana in Roma, dove conseguo in un quinquennio la licenza in teologia, con specializzazione in morale.
Sono ordinato sacerdote il 29 giugno 1975, in S. Pietro, per le mani del Beato Paolo VI. E’ stato un momento per me molto particolare che ancora oggi mi crea commozione e mi dà forza.
Dopo l’ordinazione e una breve esperienza pastorale in borgata Ottavia a Roma, la Congregazione mi invia in una scuola di studi superiori a Brescia, dove svolgo il mio lavoro per vent’anni, insegnando materie letterarie e religione e ricoprendo, negli ultimi anni, la carica di direttore e di dirigente scolastico. Sono stati anni densi di attività e veramente belli per le relazioni con gli alunni e le loro famiglie: di questi anni ringrazio sempre dal profondo del cuore il Signore.
Nel Capitolo generale della Congregazione, svoltosi nel luglio 1997, vengo eletto Economo generale della stessa. Questa carica mi viene rinnovata nel Capitolo generale del 2003 e del 2009 e termino l’incarico nell’ agosto 2015. Le difficoltà sono state grandi, ma anche di questi anni devo ringraziare il Signore perché ho constatato molto spesso la sua Provvidenza e ho avuto la possibilità di conoscere a fondo la Congregazione nelle sue varie opere in Italia, Brasile, Cile, Angola e Mozambico.
E ora, dopo un periodo dove ho dovuto ristabilirmi fisicamente, la Congregazione mi ha proposto di essere parroco a Sant’Anna in Pontinia. Ho avuto un momento di smarrimento quando ho sentito la proposta, ma, dopo qualche giorno di riflessione, ho accettato con entusiasmo, sicuro che il Signore mi accompagnerà anche in questa nuova sfida. Ho conosciuto, da P. Italico in poi, tutti i parroci che si sono succeduti nella parrocchia di S. Anna: tutti hanno amato Pontinia e vi hanno lavorato con grande impegno. Spero di continuare con Voi lo stesso cammino. Ho bisogno di imparare molto, ma so che mi sarete vicini.
Come parroco, vi assicuro, pregherò ogni giorno per Voi perché, pur tra i molti problemi e le molte difficoltà, il Signore possa dare a tutti pace e serenità. Voi pregate per me.
Padre Giancarlo Orlini
Pregare cambia il cuore, diventi ciò che ami
Dal deserto al Tabor; dalla domenica dell’ombra che ci minaccia, alla domenica della luce che ci abita. Ciò che è avvenuto in Cristo avverrà in ciascuno, lui è il volto ultimo e alto dell’uomo, icona di Dio dipinta, come le antiche icone greche, su di un fondo d’oro, che traspare dalle ferite e dai graffi della vita, come da misteriose feritoie. Il racconto della trasfigurazione è collocato in un contesto duro e difficile: Gesù ha appena consegnato ai suoi il primo annuncio della passione: il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso. E subito, dentro quel momento di oscurità, il vangelo ci regala il volto di Cristo che gronda luce, su cui tenere fissi gli occhi per affrontare il momento in cui la vita gronda sangue, per tutti, come per Gesù nell’orto degli ulivi.
Gesù salì su di un alto monte a pregare. I monti sono come indici puntati verso il cielo, verso il mistero di Dio e la sua salvezza, raccontano che la vita è un ascendere silenzioso e tenace verso più luce, più orizzonti, più cielo.
Gesù sale per pregare. La preghiera è mettersi in viaggio: destinazione Tabor, un battesimo di luce e di silenzio; destinazione futuro, un futuro più buono; approdo è il cuore di luce di Dio.
Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma. Pregare cambia il cuore, tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, Colui che preghi: è nel contatto con il Padre che la nostra realtà si illumina, e appare in tutta la sua lucentezza e profondità.
In qualche momento privilegiato, toccati dalla gioia, dalla dolcezza di Dio, forse ci è capitato di dire, come Pietro: Signore, che bello! Vorrei che questo momento durasse per sempre. Facciamo qui tre tende? E una voce interiore diceva: è bello stare su questa terra, gravida di luce. È bello essere uomini, dentro questa umanità che pian piano si libera, cresce, ascende. È bello vivere.
Le parole di Pietro trasmettono una esperienza precisa: Dio è bello. Invece La nostra predicazione ha ridotto Dio in miseria, relegato a rovistare nel passato e nel peccato dell’uomo. Ora sta a noi restituirgli il suo volto solare, testimoniare un Dio bello, desiderabile, interessante. Il Dio del futuro, delle fioriture, un Dio da gustare e da godere. Come san Francesco quando prega: tu sei bellezza, tu sei bellezza. Come sant’Agostino: tardi ti ho amato bellezza tanto antica e tanto nuova. Sarà come bere alle sorgenti della luce, agli orli dell’infinito.
Davvero il cristianesimo è proprio la religione della penitenza, della mortificazione, del sacrificio, come molti pensano? No, il vangelo è la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore.
P. Ermes Ronchi
Come grandine
Ti preghiamo, Signore Gesù,
fa’ che questa cenere scenda sulle nostre teste
con la forza della grandine
e ci svegli dal torpore del peccato.
Fa’ che questi quaranta giorni
siano un’occasione speciale per convertire il nostro cuore a Te,
e rimetterti al primo posto nella nostra vita.
Donaci di saper riconoscere il tuo passaggio
e di vivere ogni istante con la certezza
che Tu cammini in mezzo a noi,
che Tu sai aspettare il nostro passo lento e insicuro;
che Tu sai vedere in noi
quello che nemmeno sappiamo immaginare.
In questi quaranta giorni,
metti nel nostro cuore desideri
che palpitino al ritmo della Tua Parola.
Maria aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera.
Amen.
Don Roberto Seregni
Nella festa di nozze il principe dei segni, il capostipite
L’intero Israele risuonava del lamento di schiavi e lebbrosi, e Gesù sembra ignorarli e inizia il suo ministero ma da una festa di nozze. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe di vino.
Sembra indifferenza davanti al dolore dei poveri, la scelta di qualcosa di secondario di fronte al dramma del mondo, eppure il vangelo chiama questo il “principe dei segni”, il capostipite di tutti.
Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l’umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa.
A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell’amore umano. Lui crede nell’amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l’amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.
Gesù prende l’amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l’incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta.
A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).
Ma ecco che «viene a mancare il vino». Il vino, in tutta la Bibbia, è il simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Felice e sempre minacciato. Non hanno più vino, esperienza che tutti abbiamo fatto, quando stanchezza e ripetizione prendono il sopravvento. Quando ci assalgono mille dubbi, quando gli amori sono senza gioia, le case senza festa, la fede senza passione.
Ma c’è il punto di svolta del racconto. Maria, la donna attenta a ciò che accade nel suo spazio vitale, sapiente della sapienza del Magnificat (sa che Dio sazia gli affamati di vita) indica la strada: «Qualunque cosa vi dica, fatela».
Fate ciò che dice, fate il suo Vangelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore.
Fate il vangelo, e si trasformerà la vita, da vuota a piena, da spenta a felice. Più vangelo è uguale a più vita. Più Dio equivale a più io. Viene come un di più sorprendente, come vino immeritato e senza misura, un seme di luce. Ho tanta fiducia in Lui, perché non dei miei meriti tiene conto, ma solo del mio bisogno.
P. Ermes Ronchi
Se lo Spirito incendia il legno secco del nostro cuore
Viene dopo di me colui che è più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco, vi immergerà nel vento e nel fuoco di Dio. Bella definizione del cristiano: Tu sei ‘uno immerso’ nel vento e nel fuoco, ricco di vento e di fuoco, di libertà e calore, di energia e luce, ricco di Dio.
Il fuoco è il simbolo che riassume tutti gli altri simboli di Dio. Nel vangelo di Tommaso Gesù afferma: stare vicino a me è stare vicino al fuoco. Il fuoco è energia che trasforma le cose, è la risurrezione del legno secco del nostro cuore e la sua trasfigurazione in luce e calore.
Il vento: alito di Dio soffiato sull’argilla di Adamo, vento leggero in cui passa Dio sull’Oreb, vento possente di Pentecoste che scuote la casa. La Bibbia è un libro pieno di un vento che viene da Dio, che ama gli spazi aperti, riempie le forme e passa oltre, che non sai da dove viene e dove va, fonte di libere vite.
Battesimo significa immersione. Uno dei più antichi simboli cristiani, quello del pesce, ricorda anche questa esperienza: come il piccolo pesce nell’acqua, così il piccolo credente è immerso in Dio, come nel suo ambiente vitale, che lo avvolge, lo sostiene, lo nutre.
Gesù stava in preghiera ed ecco, venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Quella voce dal cielo annuncia tre cose, proclamate a Gesù sul Giordano e ripetute ad ogni nostro battesimo.
Figlio è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue.
Amato. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è ‘amato’. «Tu ci hai amati per primo, o Dio, e noi parliamo di te come se ci avessi amato per primo una volta sola. Invece continuamente, di giorno in giorno, per la vita intera Tu ci ami per primo» (Kierkegaard).
Mio compiacimento è la terza parola, che contiene l’idea di gioia, come se dicesse: tu, figlio mio, mi piaci, ti guardo e sono felice. Si realizza quello che Isaia aveva intuito, l’esultanza di Dio per me, per te: come gode lo sposo l’amata così di te avrà gioia il tuo Dio (Is 62,5).
Se ogni mattina potessi ripensare questa scena, vedere il cielo azzurro che si apre sopra di me come un abbraccio; sentire il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio mio, amato mio, mio compiacimento; sentirmi come un bambino che anche se è sollevato da terra, anche se si trova in una posizione instabile, si abbandona felice e senza timore fra le braccia dei genitori, questa sarebbe la mia più bella, quotidiana esperienza di fede.
P. Ermes Ronchi
Dio parla la lingua della gioia
Magi voi siete i santi più nostri, naufraghi sempre in questo infinito, eppure sempre a tentare, a chiedere, a fissare gli abissi del cielo fino a bruciarsi gli occhi del cuore (Turoldo).
Messaggi di speranza oggi: c’è un Dio dei lontani, dei cammini, dei cieli aperti, delle dune infinite, e tutti hanno la loro strada. C’è un Dio che ti fa respirare, che sta in una casa e non nel tempio, in Betlemme la piccola, non in Gerusalemme la grande. E gli Erodi possono opporsi alla verità, rallentarne la diffusione, ma mai bloccarla, essa vincerà comunque. Anche se è debole come un bambino.
Proviamo a percorrere il cammino dei Magi come se fosse una cronaca dell’anima.
Il primo passo è in Isaia: «Alza il capo e guarda». Saper uscire dagli schemi, saper correre dietro a un sogno, a una intuizione del cuore, guardando oltre.
Il secondo passo: camminare. Per incontrare il Signore occorre viaggiare, con l’intelligenza e con il cuore. Occorre cercare, di libro in libro, ma soprattutto di persona in persona. Allora siamo vivi.
Il terzo passo: cercare insieme. I Magi (non «tre» ma «alcuni» secondo il Vangelo) sono un piccolo gruppo che guarda nella stessa direzione, fissano il cielo e gli occhi delle creature, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro.
Il quarto passo: non temere gli errori. Il cammino dei Magi è pieno di sbagli: arrivano nella città sbagliata; parlano del bambino con l’uccisore di bambini; perdono la stella, cercano un re e trovano un bimbo, non in trono ma fra le braccia della madre.
Eppure non si arrendono ai loro sbagli, hanno l’infinita pazienza di ricominciare, finché al vedere la stella provarono una grandissima gioia. Dio seduce sempre perché parla la lingua della gioia.
Entrati in casa videro il Bambino e sua Madre… Non solo Dio è come noi, non solo è con noi, ma è piccolo fra noi. Informatevi con cura del Bambino e fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo. Quel re, quell’Erode, uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi: è il cinismo, il disprezzo che distrugge i sogni del cuore.
Ma io vorrei riscattare le sue parole e ripeterle all’amico, al teologo, al poeta, allo scienziato, al lavoratore, a ciascuno: hai trovato il Bambino?
Cerca ancora, accuratamente, nei libri, nell’arte, nella storia, nel cuore delle cose; cerca nel Vangelo, nella stella e nella parola, cerca nelle persone, e in fondo alla speranza; cerca con cura, fissando gli abissi del cielo e del cuore, e poi fammelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo.
Aiutami a trovarlo e verrò, con i miei piccoli doni e con tutta la fierezza dell’amore, a far proteggere i miei sogni da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
P. Ermes Ronchi
La legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare
«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa». Nelle parole del profeta, Dio danza di gioia per l'uomo. Appare un Dio felice, il cui grido di festa attraversa questo tempo d'avvento, e ogni tempo dell'uomo, per ripetere a me, a te, ad ogni creatura: «tu mi fai felice». Tu, festa di Dio.
La sua gioia è stare con i figli dell'uomo. Il suo nome è Io-sono-con-te: «non temere, dovunque tu andrai, in tutti i passi che farai, quando cadrai e ti farai male, non temere, io sono con te; quando ti rialzerai e sorriderai di nuovo, io sarò ancora con te». È con te Colui che mai abbandona, vicino come il cuore e come il respiro, bello come un sogno. Tutti i giorni, fino al consumarsi del mondo.
Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce dei sogni; solo qui, solo per amore Dio grida. Non per minacciare, per amare di più.
Il profeta intuisce la danza dei cieli e intona il canto dell'amore felice, dell'amore che rende nuova la vita: "ti rinnoverà con il suo amore".
Il Battista invece, quasi in contrappunto, risponde alla domanda più feriale, che sa di mani e di fatica: "e noi che cosa dobbiamo fare?". E il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: "chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l'ha".
Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: "chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha". Nell'ingranaggio del mondo Giovanni getta un verbo forte, "dare". Il primo verbo di un futuro nuovo.
In tutto il Vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare (non c'è amore più grande che dare la vita per quanti si amano; Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, chiunque avrà dato anche solo un bicchiere d'acqua fresca…). È legge della vita: per stare bene l'uomo deve dare.
Vengono pubblicani e soldati, pilastri del potere: "e noi che cosa faremo?" "Non prendete, non estorcete, non accumulate". Tre parole per un programma unico: tessere il mondo della fraternità, costruire una terra da cui salga giustizia.
Il profeta sa che Dio si incarna attraverso il rispetto e la venerazione verso tutti gli uomini, come energia che libera dalle ombre della paura che ci invecchiano il cuore. L'amore rinnova (Sofonia), la paura paralizza, ruba il meglio della vita.
«E io, che cosa devo fare?». Non di grandi profeti abbiamo bisogno, ma di tanti piccoli profeti, che là dove sono chiamati a vivere, giorno per giorno, siano generosi di giustizia e di misericordia, che portino il respiro del cielo dentro le cose di ogni giorno. Allora, a cominciare da te, si riprende a tessere il tessuto buono del mondo.
Padre Ermes Ronchi
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