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Messaggio del Papa per la festa di S. Maria Goretti, “testimone del perdono”

SM Goretti2Mi è stato riferito che durante questo Giubileo della Misericordia le vostre Comunità hanno voluto rivolgere uno sguardo di particolare attenzione a Santa Maria Goretti, venerata come patrona delle vostre Chiese particolari.

La povertà e l’urgente necessità di lavoro spinsero la famiglia Goretti ad emigrare dalla nativa Corinaldo (nelle Marche) nell’Agro Romano prima e poi nel cuore di quelle che erano, all’epoca, le Paludi Pontine, terre fertili ma insidiose a motivo della malaria; lacrime e povertà accompagnavano ieri – come, drammaticamente, ancora oggi – i cammini di famiglie e di popoli che hanno all’origine le cause più varie, fra cui la povertà (cf. Amoris Laetitia n. 46). È una circostanza che ci fa sentire ancora più vicina questa ragazza che, come usavano fare nella famiglia di origine, voi continuate a chiamare Marietta; la famiglia visse con dignità questa situazione e mentre la Mamma Assunta provvedeva al lavoro, Marietta si prendeva cura dei fratelli e accudiva alla casa.

È commovente il fervore con il quale Marietta si preparò a ricevere per la prima volta l’Eucaristia e con cui, in seguito, si accostava alla mensa eucaristica. Anche se, vista la situazione dei luoghi e le circostanze della sua vita, si poté cibare di Cristo solo altre poche volte, una testimone ricorda, in proposito, questa significativa espressione della piccola Goretti: “Quando andiamo a fare la Comunione? Non vedo l’ora !” ; al numero, dunque, supplì l’intensità dell’amore per Gesù Eucaristia, senza la cui forza non avrebbe potuto compiere la scelta fondamentale della sua breve esistenza, per cui il venerabile Pio XII, il giorno della sua canonizzazione, poteva affermare che il candido giglio della sua verginità era stato imporporato dal sangue dei martiri (cf. AAS 42 [1950], 579).

Mi piace oggi porre in evidenza che, nel momento in cui, ferita a morte, compì la scelta suprema della sua vita, Marietta non pensava più a se stessa, ma a proteggere chi la colpiva a morte: «Così vai all’inferno… », ripeteva ad Alessandro Serenelli! Conosciamo pure le parole di perdono che ella ebbe per lui; sul letto di morte, al cappellano dell’ospedale di Nettuno, disse: «Lo perdono e lo voglio con me in paradiso». Nella bolla Misericordiae Vultus ho sottolineato che «il perdono [ … ] diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore» (n. 9). Proprio questa generosissima offerta di perdono accompagna la morte serena della giovane Marietta e costituisce per il suo uccisore l’inizio di quel sincero cammino di conversione che, alla fine, lo condurrà a gustare il fiducioso abbandono nelle braccia del Padre delle misericordie.

So che, in tanti, insieme ai vostri Vescovi e sacerdoti, vi raccogliete nei luoghi legati alla memoria di Marietta: a Le Ferriere, dove fu colpita a morte; presso la «tenda del perdono» a Nettuno, dove morì; al Santuario della Madonna delle Grazie e di Santa Maria Goretti, dove è venerato il suo corpo. Questo recarvi nei luoghi in cui, viva, è la sua memoria, vi stimoli ad impegnarvi, come la Santa che venerate, ad essere testimoni del perdono. Come ho scritto nella bolla Misericordiae Vultus, è «giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza» (n. 10): è questo l’augurio con cui, di cuore, vi faccio giungere il mio saluto e la mia benedizione e, insieme, la richiesta di non dimenticarvi di pregare per me.

Francesco

Lettera del Papa: Messaggio papa Francesco a Crociata/Semeraro

La peccatrice ai piedi di Gesù e il nostro «perbenismo»

Peccatrice_Piedi_22Entro in questo racconto grondante di lacrime e di profumo, grondante di vita, e provo a mettermi dalla parte della peccatrice, a guardare con i suoi occhi. Lo faccio perché così fa Gesù. Il suo sguardo si fa largo nel groviglio delle contraddizioni morali della donna per fissarsi sul germe intatto, sul germe divino che è nel cuore anche dell’ultima prostituta. E risvegliarlo.
Che spinta potente deve aver sentito quella donna per decidere di sfidare tutte le buone consuetudini, di calpestare i rituali consolidati, solo per dare ascolto al suo cuore inquieto. E che convinzione altrettanto forte deve aver avuto, per sapere con tutte le sue fibre che quel giovane rabbi, di cui aveva sentito raccontare gesti e parole, non l’avrebbe disprezzata, non l’avrebbe cacciata.
Va diritta davanti a lui, non gli chiede permesso, fa una cosa inaudita tanto è sconveniente: mani, bocca, lacrime, capelli, profumo su quei piedi.
Lei ha capito il cuore di Gesù meglio di tutti. Simone, tu non mi hai dato un bacio, questa donna invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi. Dal poco al molto amore: Gesù desidera essere amato, va in cerca di persone e ambienti pronti a dargli affetto.
Il racconto rivela tutta l’umanità di Gesù, volto alto di Dio e dell’uomo. Gesù non solo dà affetto, ma sa anche riceverlo. Ama e si lascia amare, e in questo atteggiamento la sua umanità e la sua divinità si riconoscono, si ricongiungono.
Simone era un fariseo molto religioso e molto duro. Perché a volte la religiosità ha tolto sensibilità al nostro cuore? Forse è accaduto quando abbiamo vissuto la fede come osservanza delle regole e non come risposta all’amore di Dio.
Molto le è perdonato perché molto ha amato. Gesù ci invita ancora a convertirci a un Dio diverso da quello che temiamo e non amiamo, a un Dio che mette la persona prima della sua stessa legge. Anzi la sua prima legge, la prima sua gioia è che l’uomo viva.
Gesù ci invita ancora a cambiare il paradigma della nostra fede: dal paradigma del peccato a quello dell’amore. Non è il peccato l’asse portante del nostro rapporto con Dio, ma il ricevere e restituire amore.
Noi pensiamo la fede come un insieme complicato di dogmi e di doveri, con molte leggi e poco profumo; Gesù invece va dritto al cuore: ama, hai fatto tutto.
L’amore non fa peccati. L’amore contiene tutto, tutti i doni e tutti i doveri (M. Bellet). La vita non si sbaglia scommettendo in partenza sull’amore.
Quella donna mostra che un solo gesto d’amore, anche se muto e senza eco, è più utile per questo nostro mondo dell’azione più clamorosa, dell’opera più grandiosa. Questa è la vera rivoluzione portata da Gesù, possibile a tutti, possibile a me, ogni giorno.

P. Ermes Ronchi

La vedova di Nain e il ‘miracolo’ che ci chiede Gesù

viewLa donna di Nain aveva già pianto la morte del suo uomo. Adesso è inghiottita dal dolore più atroce, quello che non ha neppure un nome per essere detto: due vite, quella del figlio e la sua, precipitate dentro un’unica bara.
Quante storie così anche oggi. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Nella Bibbia cerchi invano una risposta al perché del dolore. Il Vangelo però racconta la prima reazione di Gesù: egli prova dolore per il dolore dell’uomo.
E lo esprime con tre verbi: provare compassione, fermarsi, toccare. Gesù vede il pianto e si commuove, si lascia ferire dalle ferite di quel cuore. Il mondo è un immenso pianto, un fiume di lacrime, ma invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona (donna, non piangere) e scoprire dietro un centimetro quadrato di iride vita e morte, dolore e speranza.
C’è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, un dolore: fermarsi, inginocchiarsi e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, come bambini o come innamorati. Quando ti fermi con qualcuno hai già fatto molto per la storia del mondo. Nessun segnale ci dice che quella donna fosse più religiosa di altri. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù è il suo dolore.
Quella donna non prega Gesù, non lo chiama, non lo cerca, ma tutto in lei è una supplica senza parole, e Dio ascolta l’eloquenza delle lacrime, risponde al pianto silenzioso di chi neppure si rivolge a lui. E si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Gesù vede, si ferma e tocca. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain. Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo, il mendicante, la bara. Non è un sentimento è una decisione.
Si accosta, tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati, sorgi, il verbo usato per la risurrezione.
E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all’abbraccio, all’amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d’amore nelle quali soltanto troviamo la vita.
E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande!
Gesù è il profeta della compassione, di un Dio che cammina per tutte le Nain del mondo, si avvicina a chi piange, piange insieme con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore.
E ci convoca a operare “miracoli”, non quello di trasformare una bara in una culla, come a Nain, ma quello di sostare accanto a chi soffre, accanto alle infinite croci del mondo, lasciandosi ferire da ogni ferita, portando il conforto umanissimo e divino della compassione.
Fermarsi. Per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).
Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico, e lo riempie, è un modo di amare, il modo più intimo, è il bacio. Apre una stagione nuova nelle relazioni. Come la notte comincia dalla prima stella, così il mondo nuovo comincia dal primo samaritano buono.
Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d’ora in poi niente sarà più come prima.
Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei.
Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile.
Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna.

P. Ermes Ronchi

Lo chiamavano Trinità

trinita“Trinità”: dal punto di vista terminologico, è un neologismo inventato dalla Chiesa per dare un nome al nostro Dio e, pur proclamando la fede in un solo Dio, distinguerlo in tre Persone uguali e distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Nel vocabolario mancava una parola che significasse contemporaneamente uno e tre; e voilà, ecco a voi la TRINITA’!
Venti secoli di riflessione teologica hanno sempre più arricchito, ma anche “complessificato” la conoscenza del Dio dei cristiani; del resto, la fede non è una cosa semplice, anche se Dio è l’Essere più semplice che c’è! tra i cosiddetti predicati di Dio c’è anche l’UNO: più semplice di così!

Com’è possibile, chiediamoci, dichiarare che 3 è uguale a 1?

Quest’oggi mi permetto di obbiettare sulla scelta del brano di Vangelo: al capitolo 10 di Giovanni, ma anche e soprattutto al capitolo 17, il Signore dichiara che lui e il Padre sono uno; e prega il Padre affinché anche coloro che (il Padre) gli ha affidato siano una cosa sola, come lui, Gesù, e il Padre sono una cosa sola. Secondo il mio modesto parere, questi due brani di Vangelo sono decisamente più appropriati per parlare della Trinità.
E lo Spirito Santo? dov’è finito lo Spirito Santo?
Lo Spirito Santo è l’Amore che lega il Padre al Figlio e viceversa! Quando si parla del Padre e del Figlio si parla implicitamente anche dello Spirito Santo!
Magari, parlando dei cristiani, si potesse dire lo stesso!
Magari, si potesse dare per scontato l’amore cristiano anche tra noi cristiani!

L’Amore che lega il Padre al Figlio è talmente vero, talmente sostanziale ed essenziale, da assumere i connotati di una Persona vera e propria, appunto, la terza Persona della Trinità…che, poi, è la prima in ordine di apparizione, nella Bibbia, l’ho già detto domenica scorsa, in occasione della solennità della Pentecoste.
C’è un aspetto di importanza capitale nella nostra riflessione sulla Trinità; e lo cogliamo osservando l’icona tradizionale della Trinità: il Padre sorregge con le mani la croce del Figlio, mentre lo Spirito Santo vola sospeso tra lo sguardo del Padre e il capo reclinato del Figlio.
La croce è l’ora del Figlio, certo, il momento della morte/innalzamento/glorificazione di Gesù.
Tuttavia, in quel momento, sono presenti tutte e tre le persone (della Trinità), a condividere l’estremo gesto di riconciliazione con il quale il Verbo incarnato rivela l’amore infinito di Dio.
Coloro che hanno superato da un po’ gli –anta e si sono preparati alla prima comunione sul catechismo di Pio X, hanno studiato che Gesù patì come uomo, non come Dio.
Questa è ancora la spiegazione teologica del rapporto tra il nostro Dio infinito e immortale e la passione in croce di Gesù…
Ora, se è vero, com’è vero, che, in quanto Dio, il Signore non poteva né patire, né morire, gli autori della famosa icona occidentale della Trinità, dovrebbero spiegarci perché, al momento della morte del Figlio, convocano anche le altre due Persone… semplici testimoni?
Non credo!
Queste tre Persone, sono o non sono una cosa sola?
Se sì, allora non è errato pensare che tutto Dio nasce, tutto Dio opera prodigi, tutto Dio insegna e guarisce, tutto Dio patisce, tutto Dio muore, tutto Dio risorge. Certamente, nella persona di Cristo. Ma, come più volte sottolinea il Vangelo, il mistero dell’Incarnazione non separa il Figlio dal Padre e dallo Spirito Santo; in altre parole, l’unità trinitaria resta integra anche nel tempo che va dall’annunciazione dell’angelo a Maria santissima, all’Ascensione del Cristo al cielo.
È talmente armonica e integrale l’unità della sostanza delle tre Persone, che, dopo l’ascensione del Cristo risorto, anche la Trinità ne resta sensibilmente mutata: se prima dell’incarnazione la seconda persona della Trinità possedeva solo ed esclusivamente natura divina, dopo l’incarnazione, il Cristo conserva anche la natura umana (oltre a quella divina).

Come vedete, qualsiasi cosa possiamo affermare sulla Trinità, l’identità di Dio resta sempre un mistero, non solo nel senso di sacramento efficace della Grazia, ma anche nel senso di enigma, realtà troppo alta per comprenderla e definirla. S.Agostino dichiara: “Se lo capisci non è Dio!” È doveroso riconoscere che queste precisazioni non aggiungono granché al Vangelo.
Con buona pace dei filosofi cristiani, il Vangelo è l’unico testimone autorevole e autentico, che ci possa illuminare e rivelare la Verità di Gesù di Nazareth e la Verità di Dio; non si tratta di due verità diverse: la prima è contenuta nella seconda, come la parte nel tutto.
Che ne dite, la finiamo qui? Mi rendo conto che più ci inoltriamo nel discorso su Dio, più il discorso perde apparentemente il contatto con la realtà.
Tutta colpa, pardon, tutto merito della (filosofia) Scolastica, la quale rappresenta un crocevia, per la riflessione sul mistero di Dio, allorché, abbandonato per così dire l’elemento esperienziale della fede, cioè il momento liturgico, i teologi imboccarono la strada della speculazione filosofico-metafisica, assumendo concetti e categorie astratte, sillogismi, argomentazioni logiche, nella convinzione che tale cambio di rotta –dall’esperienza (sacramentale) di Dio, alla speculazione su Dio – potesse giovare alla comprensione delle verità rivelate.
Le intenzioni erano buone, più che buone… la riuscita, non lo so…

San Paolo ci ricorda che lo Spirito Santo ci insegna qualcosa di fondamentale sul nostro Dio: ci insegna a chiamarlo Padre. Così lo chiamò Gesù, nell’orto degli ulivi; e così lo chiamiamo noi, nella preghiera che Lui ci ha insegnato. La consapevolezza della paternità di Dio deve bastarci a vivere la fede e a sentirci fratelli nella fede.
E così sia!

fr. Massimo Rossi

 

Lo Spirito che ‘riporta al cuore’ ogni parola di Gesù

PentecosteLo Spirito Santo che il Padre manderà vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Lo Spirito, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi dell’origine, il fuoco del roveto, l’amore in ogni amore, respiro santo del Padre e del Figlio, lo Spirito che è Signore e dà la vita, come proclamiamo nel Credo, è mandato per compiere due grandi opere: insegnare ogni cosa e farci ricordare tutto quello che Gesù ha detto.
Avrei ancora molte cose da dirvi, confessa Gesù ai suoi. Eppure se ne va, lasciando il lavoro incompiuto. Penso all’umiltà di Gesù, che non ha la pretesa di aver insegnato tutto, di avere l’ultima parola, ma apre, davanti ai discepoli e a noi, spazi di ricerca e di scoperta, con un atto di totale fiducia in uomini e donne che finora non hanno capito molto, ma che sono disposti a camminare, sotto il vento dello Spirito che traccia la rotta e spinge nelle vele. Queste parole di Gesù mi regalano la gioia profetica e vivificante di appartenere ad una Chiesa che è un sistema aperto e non un sistema bloccato e chiuso, dove tutto è già stabilito e definito.
Lo Spirito ama insegnare, accompagnare oltre, verso paesaggi inesplorati, scoprire vertici di pensiero e conoscenze nuove. Vento che soffia avanti.
Seconda opera dello Spirito: vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Ma non come un semplice fatto mnemonico o mentale, un aiuto a non dimenticare, bensì come un vero “ricordare“, cioè un “riportare al cuore“, rimettere in cuore, nel luogo dove di decide e si sceglie, dove si ama e si gioisce. Ricordare vuol dire rendere di nuovo accesi gesti e parole di Gesù, di quando passava e guariva la vita, di quando diceva parole di cui non si vedeva il fondo.
Perché lo Spirito soffia adesso; soffia nelle vite, nelle attese, nei dolori e nella bellezza delle persone. Questo Spirito raggiunge tutti. Non investe soltanto i profeti di un tempo, o le gerarchie della Chiesa, o i grandi teologi. Convoca noi tutti, cercatori di tesori, cercatrici di perle, che ci sentiamo toccati al cuore da Cristo e non finiamo di inseguirne le tracce; ogni cristiano ha tutto lo Spirito, ha tanto Spirito Santo quanto i suoi pastori.
Ognuno ha tutto lo Spirito che gli serve per collaborare ad una terza opera fondamentale per capire ed essere Pentecoste: incarnare ancora il Verbo, fare di ciascuno il grembo, la casa, la tenda, una madre del Verbo di Dio. In quel tempo, lo Spirito è sceso su Maria di Nazareth, in questo tempo scende in me e in te, perché incarniamo il Vangelo, gli diamo passione e spessore, peso e importanza; lo rendiamo presente e vivo in queste strade, in queste piazze, salviamo un piccolo pezzo di Dio in noi e non lo lasciamo andare via dal nostro territorio.

P. Ermes Ronchi

Pregare cambia il cuore, diventi ciò che ami

trasfigDal deserto al Tabor; dalla domenica dell’ombra che ci minaccia, alla domenica della luce che ci abita. Ciò che è avvenuto in Cristo avverrà in ciascuno, lui è il volto ultimo e alto dell’uomo, icona di Dio dipinta, come le antiche icone greche, su di un fondo d’oro, che traspare dalle ferite e dai graffi della vita, come da misteriose feritoie. Il racconto della trasfigurazione è collocato in un contesto duro e difficile: Gesù ha appena consegnato ai suoi il primo annuncio della passione: il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso. E subito, dentro quel momento di oscurità, il vangelo ci regala il volto di Cristo che gronda luce, su cui tenere fissi gli occhi per affrontare il momento in cui la vita gronda sangue, per tutti, come per Gesù nell’orto degli ulivi.
Gesù salì su di un alto monte a pregare. I monti sono come indici puntati verso il cielo, verso il mistero di Dio e la sua salvezza, raccontano che la vita è un ascendere silenzioso e tenace verso più luce, più orizzonti, più cielo.
Gesù sale per pregare. La preghiera è mettersi in viaggio: destinazione Tabor, un battesimo di luce e di silenzio; destinazione futuro, un futuro più buono; approdo è il cuore di luce di Dio.
Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma. Pregare cambia il cuore, tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, Colui che preghi: è nel contatto con il Padre che la nostra realtà si illumina, e appare in tutta la sua lucentezza e profondità.
In qualche momento privilegiato, toccati dalla gioia, dalla dolcezza di Dio, forse ci è capitato di dire, come Pietro: Signore, che bello! Vorrei che questo momento durasse per sempre. Facciamo qui tre tende? E una voce interiore diceva: è bello stare su questa terra, gravida di luce. È bello essere uomini, dentro questa umanità che pian piano si libera, cresce, ascende. È bello vivere.
Le parole di Pietro trasmettono una esperienza precisa: Dio è bello. Invece La nostra predicazione ha ridotto Dio in miseria, relegato a rovistare nel passato e nel peccato dell’uomo. Ora sta a noi restituirgli il suo volto solare, testimoniare un Dio bello, desiderabile, interessante. Il Dio del futuro, delle fioriture, un Dio da gustare e da godere. Come san Francesco quando prega: tu sei bellezza, tu sei bellezza. Come sant’Agostino: tardi ti ho amato bellezza tanto antica e tanto nuova. Sarà come bere alle sorgenti della luce, agli orli dell’infinito.
Davvero il cristianesimo è proprio la religione della penitenza, della mortificazione, del sacrificio, come molti pensano? No, il vangelo è la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore.

P. Ermes Ronchi

Come grandine

AshWednesdayTi preghiamo, Signore Gesù,
fa’ che questa cenere scenda sulle nostre teste
con la forza della grandine
e ci svegli dal torpore del peccato.

Fa’ che questi quaranta giorni
siano un’occasione speciale per convertire il nostro cuore a Te,
e rimetterti al primo posto nella nostra vita.

Donaci di saper riconoscere il tuo passaggio
e di vivere ogni istante con la certezza
che Tu cammini in mezzo a noi,
che Tu sai aspettare il nostro passo lento e insicuro;
che Tu sai vedere in noi
quello che nemmeno sappiamo immaginare.

In questi quaranta giorni,
metti nel nostro cuore desideri
che palpitino al ritmo della Tua Parola.

Maria aggiunga ciò che manca alla nostra preghiera.
Amen.

Don Roberto Seregni

Family Day, Sabato 30 Gennaio

locandina

Nella festa di nozze il principe dei segni, il capostipite

Cana_di_GalileaL’intero Israele risuonava del lamento di schiavi e lebbrosi, e Gesù sembra ignorarli e inizia il suo ministero ma da una festa di nozze. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe di vino.
Sembra indifferenza davanti al dolore dei poveri, la scelta di qualcosa di secondario di fronte al dramma del mondo, eppure il vangelo chiama questo il “principe dei segni”, il capostipite di tutti.
Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l’umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa.
A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell’amore umano. Lui crede nell’amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l’amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.
Gesù prende l’amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l’incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta.
A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).
Ma ecco che «viene a mancare il vino». Il vino, in tutta la Bibbia, è il simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Felice e sempre minacciato. Non hanno più vino, esperienza che tutti abbiamo fatto, quando stanchezza e ripetizione prendono il sopravvento. Quando ci assalgono mille dubbi, quando gli amori sono senza gioia, le case senza festa, la fede senza passione.
Ma c’è il punto di svolta del racconto. Maria, la donna attenta a ciò che accade nel suo spazio vitale, sapiente della sapienza del Magnificat (sa che Dio sazia gli affamati di vita) indica la strada: «Qualunque cosa vi dica, fatela».
Fate ciò che dice, fate il suo Vangelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore.
Fate il vangelo, e si trasformerà la vita, da vuota a piena, da spenta a felice. Più vangelo è uguale a più vita. Più Dio equivale a più io. Viene come un di più sorprendente, come vino immeritato e senza misura, un seme di luce. Ho tanta fiducia in Lui, perché non dei miei meriti tiene conto, ma solo del mio bisogno.

P. Ermes Ronchi

Se lo Spirito incendia il legno secco del nostro cuore

battesimoViene dopo di me colui che è più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco, vi immergerà nel vento e nel fuoco di Dio. Bella definizione del cristiano: Tu sei ‘uno immerso’ nel vento e nel fuoco, ricco di vento e di fuoco, di libertà e calore, di energia e luce, ricco di Dio.
Il fuoco è il simbolo che riassume tutti gli altri simboli di Dio. Nel van­gelo di Tommaso Gesù afferma: sta­re vicino a me è stare vicino al fuo­co. Il fuoco è energia che trasforma le cose, è la risurrezione del legno secco del nostro cuore e la sua trasfigurazione in luce e calore.
Il vento: alito di Dio soffiato sul­l’argilla di Adamo, vento leggero in cui passa Dio sull’Oreb, vento pos­sente di Pentecoste che scuote la casa. La Bibbia è un libro pieno di un vento che viene da Dio, che ama gli spazi aperti, riempie le for­me e passa oltre, che non sai da do­ve viene e dove va, fonte di libere vi­te.
Battesimo significa immersione. U­no dei più antichi simboli cristiani, quello del pesce, ricorda anche questa esperienza: come il piccolo pesce nell’acqua, così il piccolo cre­dente è immerso in Dio, come nel suo ambiente vitale, che lo avvolge, lo sostiene, lo nutre.
Gesù stava in preghiera ed ecco, ven­ne una voce dal cielo: «Tu sei il Fi­glio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Quella voce dal cielo annuncia tre cose, procla­mate a Gesù sul Giordano e ripetu­te ad ogni nostro battesimo.
Figlio è la prima parola: Dio è for­za di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, spe­cie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue.
Amato. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è ‘amato’. «Tu ci hai ama­ti per primo, o Dio, e noi parliamo di te come se ci avessi amato per primo una volta sola. Invece conti­nuamente, di giorno in giorno, per la vita intera Tu ci ami per primo» (Kierkegaard).
Mio compiacimento è la terza pa­rola, che contiene l’idea di gioia, come se dicesse: tu, figlio mio, mi piaci, ti guardo e sono felice. Si rea­lizza quello che Isaia aveva intuito, l’esultanza di Dio per me, per te: come gode lo sposo l’amata così di te avrà gioia il tuo Dio (Is 62,5).
Se ogni mattina potessi ripensare questa scena, vedere il cielo azzur­ro che si apre sopra di me come un abbraccio; sentire il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio mio, amato mio, mio compiaci­mento; sentirmi come un bambino che anche se è sollevato da terra, anche se si trova in una posizione instabile, si abbandona felice e sen­za timore fra le braccia dei genito­ri, questa sarebbe la mia più bella, quotidiana esperienza di fede.

P. Ermes Ronchi

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